Il nuovo rapporto Oxfam sulle disuguaglianze nel mondo, di cui alcuni giornali e televisioni hanno pubblicato qualche stralcio, colpisce per l’ enunciazione ad effetto, cioè che otto persone posseggono da sole la stessa quantità di ricchezza della metà più povera dell’intera umanità.
La redistribuzione delle ricchezze
Questa scioccante e allarmante stima si aggiunge ai recenti studi sulle dinamiche della distribuzione della ricchezza a partire dalla rivoluzione industriale fino ai giorni nostri, svolti dall’economista francese Thomas Piketty nel libro “Il capitale nel XXI secolo”.
In questi studi si evidenzia come dal 1980 si sia riavviato il processo di concentrazione dell’accumulo di capitali e patrimoni nelle mani di un numero sempre più ristretto di soggetti. Si è tornati ai livelli di distribuzione delle ricchezze degli inizi del ‘900, sostanzialmente vanificando i processi redistributivi avvenuti dopo le due guerre mondiali, e soprattutto nel trentennio tra il 1950 e il 1980.
Reddito da capitale e reddito da lavoro
Se da una parte la crescita del “capitale umano”, attraverso la diffusione delle conoscenze e l’investimento sulle competenze e nella formazione, ha operato come fattore di riequilibrio delle disuguaglianze soprattutto nei paesi emergenti, dall’altra la globalizzazione ha favorito la mobilità del capitale là dove si garantivano rendimenti maggiori, aumentando la forbice tra il “reddito da capitale” e il “reddito da lavoro”.
In un contesto di crescita economica debole, l’affermarsi di pratiche come le mega-retribuzioni agli alti dirigenti, del tutto scollegate dalla la produttività del singolo individuo se confrontata con i normali redditi da lavoro, e gli elevati squilibri nel processo di accumulazione dei patrimoni hanno costituito un fattore di grave allargamento delle disuguaglianze. Infatti quando il tasso di rendimento annuo del capitale è maggiore del tasso di crescita dell’economia, i patrimoni – specie se cumulati attraverso le eredità – ricapitalizzano più velocemente dei redditi prodotti dal lavoro e dalla produzione. Accade allora che le concentrazioni di capitali che si autoalimentano possano iniziare a diventare incompatibili con i valori meritocratici e i principi di giustizia sociale su cui dovrebbero fondarsi le società democratiche.
Questo effetto tende a massimizzarsi proprio nel cosiddetto “libero mercato”, anche se in realtà libero non lo è affatto, perché la capacità di pressione che può essere esercitata da elevatissime concentrazioni di ricchezze mette in scacco le economie dei paesi emergenti e in via di sviluppo, ma anche di quelli avanzati, che iniziano ad entrare in competizione al ribasso tra di loro per accaparrarsi quote di lavoro, offrendo sempre maggiori remunerazioni al capitale attraverso sconti fiscali e bassi salari.
La perdita del primato della politica sull’economia e sulla finanza
Le cause di questo fenomeno sono diverse, ma si possono considerare tutte come conseguenze della perdita del primato della politica sull’economia, e soprattutto sulla finanza.
Anche se gli studi di Piketty e il rapporto Oxfam dovessero essere qualificati come di parte o frutto di ideologie superate dalla storia, credo sia comunque venuto il momento di guardare in faccia il problema e analizzarlo con serietà per trovare soluzioni che evitino crisi traumatiche, i cui segnali stanno già evidenziandosi in numerose democrazie avanzate.
Nelson Mandela disse che “se la globalizzazione significa – come accade spesso – che i ricchi e potenti hanno ora nuovi mezzi per arricchirsi ulteriormente e potenziarsi sulle spalle dei più poveri e deboli, abbiamo la responsabilità di protestare in nome della libertà universale”.
Nel suo ultimo discorso alle Nazioni Unite il presidente Obama ha affermato che “un mondo in cui l’1% dell’umanità controlla la stessa quantità di ricchezza del restante 99% non sarà mai stabile”, affrontando il problema da un punto di vista politico e globale.
Esiste però anche una dimensione individuale che riguarda il senso della vita di ognuno, magistralmente descritta in un famosissimo video dall’ex presidente uruguayano Mujica: “Sprechiamo tempo di vita per guadagnare denaro per comprare beni superflui, mentre l'unica cosa che non si può comprare è la vita. La vita si consuma. Ed è da miserabili consumare la vita per perdere la libertà”.
E' una società per noi?
Senza inneggiare a nessuna forma di pauperismo, è evidente come ormai sia ora di chiedersi che senso abbia una sistema economico di tipo consumistico in cui la maggior parte delle masse vive in condizioni di crescente incertezza e precarietà, mentre una sparuta minoranza si arricchisce smodatamente. E’ una società di chi? E’ una società per noi?
Se il crollo del comunismo ha evidenziato l’utopia di un’ideologia in cui il mercato non si basi sull’ambizione e il desiderio di ogni essere umano di miglioramento delle proprie condizioni economiche individuali, l’assenza di sistemi alternativi ha purtroppo rivelato, in totale assenza di correttivi, le distorsioni nel processo di distribuzione della ricchezza del sistema capitalistico di libero mercato. Il pianeta nel 1982 aveva 5,5 miliardi di abitanti. Oggi ne ha 7,5 miliardi e nel 2050 ne avrà 9,8 miliardi, se permarranno i tassi di crescita attuali e con il solo contributo dei continenti africano e asiatico, vista la sostanziale decrescita del mondo occidentale. In un contesto di stagnazione economica e di redditi al di sotto delle soglie di sussistenza, le migrazioni di massa verso le zone in cui resiste una qualità di vita accettabile sono un'ipotesi più che reale, con tutte le conseguenze che possiamo immaginare sugli stili di vita in cui crediamo.
Come tornare allo sviluppo economico?
Diventa pertanto urgente domandarsi se lo sviluppo economico mondiale sia garantito solo dal processo di accumulazione delle ricchezze nelle mani di pochi, o se per caso non sia l’oscillazione nella redistribuzione delle stesse a realizzare maggiori performance nel sostegno della domanda globale, nella creazione di benessere e sistemi di welfare a beneficio di masse crescenti. Come non c’è nuova onda senza risacca, così non potrà esserci nuovo impulso all’economia se le masse non torneranno ad avere capacità economica sufficiente a riacquistare fiducia nel futuro, a sostenere la domanda e ad indirizzarla verso nuovi bisogni e le nuove necessità di sostenibilità ambientale.
Compito della politica
Il compito della Politica, oggi, è questo. Accapigliarsi per volgari logiche di potere, sia tra partiti che tra membri di uno stesso partito, costituisce già una dichiarazione di impotenza e di resa. E’ come se la politica ci dicesse espressamente non solo che non è in grado di trovare una soluzione ad un problema che oggi sentiamo tutti con ansia e preoccupazione, ma che non è neanche in grado di affrontarlo e parlarne. Io credo che sia questo il motivo per cui ogni votazione diventi ormai l’occasione per esprimere una smisurata rabbia nei confronti delle classi dirigenti, chiunque esse siano.
La politica non può abdicare a questo compito. Ed è chiaro che non potrà affrontarlo attraverso il battibecco miserabile e volgare che oggi immiserisce il dibattito e finirà per travolgerla. Dovrà recuperare dignità e autorevolezza, per affrontare un tema che non riguarda solo gli italiani o solo gli europei, ma l’intera umanità. E che non potrà essere risolto che con soluzioni sopranazionali.
Prima che sia troppo tardi.
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Giorgio Alessandrini, 20 gennaio 2017