“Il risentimento popolare verso l’inconcludenza della classe politica, unita agli insopportabili privilegi e alla mancanza di legittimazione popolare dovuta ad una sciagurata legge elettorale che fa scegliere gli eletti al capo, acuiscono il desiderio di un cambiamento radicale e profondo, non fosse altro che per dare un virtuale ceffone a chi riteniamo responsabile della situazione in cui ci troviamo”.
Non è un commento a queste elezioni. Era un monito del settembre 2012, con cui intendevo sottolineare la distanza siderale tra le parole e gli slogan della politica e la vita normale della gente comune.
Un avviso alle classi dirigenti rimaste poi sotto le macerie del risultato elettorale del 2013; della mancanza di una maggioranza al Senato; della incapacità di eleggere un nuovo Presidente della Repubblica. E alla fine sostituite dalla segreteria Renzi.
Renzi, col suo modo spigliato di presentarsi, raccolse un partito che gli cascò in mano come una pera matura. Ma chi sa suscitare grandi speranze si trasforma con altrettanta rapidità nel bersaglio dell’odio e del risentimento generale, nel momento in cui queste vengono deluse e si spengono definitivamente. Cos’altro era il famoso 40% alle elezioni europee del 2014, se non un’intensa fiamma di speranza verso una fresca e dinamica leadership, che sembrava in grado di spazzare in un colpo polverosi e ammuffiti arnesi di una politica stantia e inconcludente?
Al governo più riformista della storia della Repubblica si è però contrapposta una gestione padronale e autoreferenziale del partito.
I buoni risultati ottenuti dall’esecutivo sono stati oscurati dalla superbia e da una inopportuna sbruffoneria, nonché dallo stillicidio quotidiano delle critiche interne al partito, dimostrando agli italiani che i suoi leader erano più interessati alle lotte e agli equilibri per la conservazione del potere che ai problemi quotidiani della povera gente. Di chi vive nel disagio delle periferie. Degli anziani soli in casa. Dei giovani che non riescono a mettere su famiglia per mancanza di prospettive.
Renzi avrebbe avuto bisogno di un partito partecipe e vigile, capillarmente integrato nel territorio per trasmetterne al vertice i segnali da esso provenienti, e concordarne con esso risposte e direttive. Invece si è teorizzato “il partito liquido”, disattivo e disarticolato nella sua quotidianità ma capace di attivarsi in occasione delle campagne elettorali, nell’illusione che le chiamate a raccolta con le primarie potessero sempre suscitare l’entusiasmo popolare.
Accade però che l’entusiasmo e la partecipazione non vengano alimentati dalle piccole rivalità locali tra chi ambisce a fare il sindaco, e meno che mai dalla scelta di un segretario locale di partito, bensì dall’adesione ad un progetto comune, ad un sogno collettivo che abbia una prospettiva credibile e realizzabile.
Accade che - senza interconnessione stretta tra i circoli sul territorio e la direzione del partito - le primarie si trasformino in un rito vuoto e stanco, inutile come tanti altri riti. Le leadership si chiudono in sé stesse, circondate da amici fidati ed esaltate da brevi e fugaci esplosioni di consenso, mentre i cittadini, gli iscritti e i militanti non trovano più un canale attraverso il quale far giungere la propria voce, il proprio appello accorato, le segnalazioni delle cose che non vanno, se non attraverso la buona volontà dei segretari provinciali del partito. Troppo poco.
Senza canali di comunicazione adeguati, si ingigantisce l’importanza delle relazioni personali e dirette, che sono quasi esclusiva competenza di chi si occupa di politica a tempo pieno e da essa trae un reddito. Gli altri non hanno il tempo né le occasione per coltivarle.
È così che la politica diventa autoreferenziale e si trasforma in élite, azzerando le possibilità di ricambio di sé stessa. Soprattutto in presenza di leggi elettorali dove le liste dei candidati vengono confezionate dal capo, e non ci sono seri sistemi di individuazione dei candidati radicati sul territorio e vincenti. Anche se per la verità in questa occasione Piacenza si può ritenere fortunata, per il livello e la qualità delle candidature espresse dal PD. Non si può dire così altrove.
Il tema di una legge elettorale che favorisca la selezione diretta delle candidature a livello locale non può più essere rinviato.
Serve a ridare autorevolezza ed indipendenza al parlamentare nei confronti del vertice.
Serve a selezionare rappresentanti stimabili e realmente capaci di raccogliere consenso.
Serve soprattutto a ricreare un importantissimo canale di comunicazione perduto tra il centro e la periferia, perché il parlamentare che deve raccogliere voti nella sua terra sta bene attento ad ascoltarne gli umori e i disagi, per portarli all’attenzione di chi decide. Cosa che ora non avviene quasi più, visto che l’attenzione del parlamentare è rivolta agli umori del capo che lo potrà ricandidare.
Ieri mi sono sentito dire una disarmante e banale verità: se la metà del popolo vota per forze antisistema, vuol dire che il sistema non funziona. Cosa si può aggiungere di più?
Chi ama ragionare di politica, chi sostiene persone verso cui nutre stima e fiducia, chi teme il futuro e guarda con preoccupazione all’Europa, chi ha semplicemente a cuore il senso di vivere in una comunità dove tutti sono importanti e hanno diritto ad una loro dignità, oggi non ha più voce se non quella dei social, che è come declamare poesie in curva allo stadio durante il derby.
Oppure frequentare la sede di un partito e parteciparne alla vita politica, come faccio io.
Nei prossimi giorni si susseguiranno gli incontri e le direzioni provinciali, per parlare degli esiti del voto e del futuro del Partito Democratico. Proveremo ad analizzare con sincerità e durezza, se necessario, i motivi per i quali il nostro elettorato non si sente più rappresentato dal partito, e neanche dalle scissioniste e velleitarie operazioni verticistiche con le quali ex leader dello stesso hanno provato ad intercettarlo.
Oggi in Italia e in Europa è in discussione il significato della sinistra. Va ripensata a livello europeo e mondiale la risposta agli evidenti problemi epocali determinati dalla globalizzazione. Che partono dall’impoverimento generale delle classi più basse e dei ceti medi, all’accumulo di enormi ricchezze nelle mani di elites sempre più ristrette, allo sconvolgimento determinato dalle grandi migrazioni di massa.
Se non ci occuperemo di questo, continueremo a bruciare leaders e segretari con la velocità di un fiammifero, senza neanche avere il tempo di portarlo sotto la legna. Finché la scatola non sarà vuota.
L’amarezza del momento mi porta a pensare che, per come è strutturato il partito oggi, se anche nella nostra sede fossero stati presenti pensatori del calibro di Napoleoni, Reichlin o Macaluso, il dibattito – per quanto elevato – resterebbe comunque circoscritto e fine a sé stesso, senza produrre alcun significativo cambiamento della situazione, a causa della esilità dei canali di trasmissione dalla periferia al centro.
“Ma chi me sente”, cantava Rino Gaetano.
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Giorgio Alessandrini, 10 marzo 2018