C’erano sere in cui, rientrando tardi dal lavoro, lasciava il giaccone sulla prima poltrona, prendeva qualcosa da bere e si abbandonava sul divano. Nel silenzio e nella penombra delle luci che filtravano dalle vetrate, pensava che l’insopportabile retorica del medioevo che avanza avesse un fondo di verità nel privato di ognuno.
Così si sentiva in quell’istante: costretto dalle armature, dalle corazze e dalle maglie di ferro che la vita gli aveva fatto indossare per proteggersi. E di cui non vedeva l’ora di liberarsi, radunando le ultime energie.
Ne sentiva il peso nel cuore come se le indossasse davvero. Una prigione di ferro che i suoi più intimi aneliti non riuscivano a valicare. Non trovava più il senso di una vita così diversa dalla fiducia e dall’incanto della gioventù, ma i tagli e le ferite che si era procurato negli anni gli avevano insegnato a salvaguardarsi.
Ora però era nel suo castello, e poteva liberarsi di tutto. Poteva lasciar riemergere la sua anima più nascosta. Poteva ascoltare i battiti ricolmi dell’amore indifeso e puro attraversare la pelle e riempirne le stanze.
La raggiunse sul letto. La guardò dormire alla luce del camino acceso e la svegliò sfiorandole il viso con le labbra. Lei ritrovò subito nei suoi occhi quello stato del cuore di cui si era innamorata da ragazza. Quello sguardo dell’anima a cui aveva sempre donato tutta sé stessa.
18 marzo 2018