Si erano messi in cammino a metà pomeriggio. L’idea era di arrivare al rifugio in tempo per la cena, andare a dormire presto e verso le sei del mattino iniziare l’avvicinamento alla parete.
Il meteo dava bel tempo e non si vedevano rischi di rimanere bloccati in quota. La prime due ore erano state relativamente facili e avevano consentito un po’ di chiacchiere. Nel proseguire, però, la salita si era fatta più ripida e alcuni passaggi avevano richiesto più attenzione. L’aveva fatta passare davanti. Non per un’apprensione sulle sue capacità , ché ormai poteva considerarla più esperta e allenata di lui. Era la sua abitudine ad avere la situazione sotto il controllo visivo. Come se, in caso di necessità , si sentisse più pronto ad intervenire.
La conversazione era diventata affannosa e lentamente aveva ceduto spazio ad un silenzio interrotto solo dai passi lenti e cadenzati sul sentiero ripido. Ormai si erano lasciati il bosco alle spalle, ed era iniziato il percorso tra le pietraie e gli ampi orizzonti tra le cime circostanti. A volte il passaggio costeggiava strapiombi che andavano attraversati agganciandosi alle funi di acciaio predisposte dalle guide nei punti pericolosi.
I minuti scorrevano più rapidamente rispetto alle loro previsioni, e il rifugio non era ancora in vista. Il sole stava calando e indorava le pareti, mettendo in evidenza gli scatti agili degli stambecchi. Glieli indicò. Erano uno spettacolo che da solo giustificava il cammino.
Gli zaini, le corde e l’attrezzatura per il giorno dopo iniziavano a pesare sulle spalle, e l’imbrunire avanzava. Le luci del rifugio in lontananza furono un sollievo, e fornirono loro le energie necessarie a raggiungerlo. Ormai lassù era ora di cena, e i gestori stavano già distribuendo la seconda portata agli altri alpinisti. Posarono la roba all’ingresso e si affrettarono a un tavolo, facendosi portare subito un primo caldo.
Il bello di una cena al rifugio in quota è quello di parlare con perfetti sconosciuti, come se ci si conoscesse da sempre. È semplice. Si è tutti lì per lo stesso motivo. A nessuno, infatti, verrebbe in mente di farsi quattro ore di cammino in salita con uno zaino pesante in spalla, per dormire in un sacco-lenzuolo in stanzoni comuni coi letti a castello, e lavarsi al mattino con l’acqua gelida, se non per nutrirsi dello spettacolo delle Dolomiti al tramonto o al mattino presto. Con il loro silenzio. Con la maestosità delle cime. L’anima tocca l’essenziale e l’incontaminato. Si distacca dagli affanni e dalle miserie del quotidiano e ci offre una visione più chiara di noi e delle nostre vite.
La cena al rifugio è uno scambio. Non è necessario essere tutti scalatori. Alcuni sarebbero tornati giù il giorno dopo senza arrampicare. Gli bastava essere stati lì, a riempirsi di quella bellezza. Mentre dividevano una bottiglia di grappa con i compagni di tavolo, presero un libro di vetta e lessero ad alta voce qualche brano di chi era arrivato in cima. I libri restano lassù, sulle cime, protetti in un anfratto o in una nicchia di sassi. Quando li hanno riempiti, vengono portati al rifugio e sostituiti coi nuovi. C’è dentro un mondo di passioni. Gente che nella scalata si trova di fronte a sé stessa, e lo scrive. Pagine commoventi. Quante volte aveva fantasticato di ricavarne un libro! Una specie di Antologia di Spoon River degli scalatori.
Nei rifugi, l’orario è la luce del sole. Alle nove e mezza erano già tutti a letto. Alle sei del mattino erano pronti fuori dal rifugio per incamminarsi verso la parete nord. Un saluto cordiale ai commensali, e zaini in spalla. Volevano essere in vetta per l’una, per avere il tempo di ridiscendere a valle entro sera.
Davanti alla parete, misero gli imbraghi, prepararono i cordini di sicurezza, agganciarono i rinvii, indossarono gli scarpini da arrampicata e si controllarono i nodi. Poi iniziarono a salire, con calma e determinazione, alternandosi da primi. Si sostennero incitandosi nei passaggi più duri, e furono in vetta all’ora prevista. La baciò e fecero l'amore. Poi guardarono il mondo insieme, abbracciati, da 2850 metri di altezza. Mangiarono le barre energetiche, scrissero, e si prepararono per la discesa in corda doppia.
Rientrati al rifugio, scelsero di cambiare percorso. Invece di scendere a valle a piedi, si sarebbero spinti verso l’altro rifugio a due ore di cammino in quota, da dove avrebbero fatto in tempo a prendere la funivia per scendere.
Quando le porte di questa si chiusero, i loro corpi iniziarono a sentire lo sforzo fatto. La mente invece era ancora eccitata dall’impresa, e ne ripercorreva il percorso. Ad entrambi sembrava che non fosse stata una salita di due singole persone, ma la perfetta armonia di una comunione che li aveva portati insieme fino alla vetta. Non ci fu neanche bisogno di dirselo. Se lo stavano dicendo con gli occhi, soddisfatti e sorridenti.
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Giorgio Alessandrini, 1 marzo 2020