A qualche mese dall'esito sfavorevole delle elezioni comunali, è il momento di qualche nuova riflessione a mente fredda, nella consapevolezza che solo dalla comprensione della realtà si possano trovare risposte sincere e rimedi efficaci alle azioni che tali non si sono rivelate.
Dal punto di vista esclusivamente locale, credo che dopo quindici anni di amministrazione di centro-sinistra sia del tutto naturale il risveglio di un desiderio di cambiamento e rinnovamento. In fondo, capita nella vita di ognuno di noi di scoprire che cambiare a volte può far bene e ci fa sentire più vitali. L’amministrazione Dosi non ha forse saputo comunicare con adeguatezza il pur importante lavoro svolto. Non è riuscita a tenersi distante e stemperare a livello locale le dinamiche interne già presenti a livello nazionale, facendole arrivare fino alla ricomposizione della giunta comunale. Errori, certamente. Ma non errori di amministrazione che siano andati a danno dei concittadini, se non per quelli che si sentivano maggiormente rappresentati da una amministrazione di centro-sinistra.
Sicuramente a Piacenza si è concluso un ciclo che ha molte più luci che ombre. Al di là del gioco quotidiano della schermaglia politica, e delle ovvie polemiche e contrapposizioni della campagna elettorale che si trascineranno ancora per un po', il tempo confermerà che questa città è stata amministrata con onore e diligenza. Probabilmente così sarà anche per la nuova amministrazione, a cui esprimo i miei migliori auguri di buon lavoro. Sono di questi giorni le nuove linee di mandato, rispetto alle quali il nuovo governo della città sarà valutato da noi come opposizione, ma soprattutto dai piacentini tutti. Ai consiglieri eletti col PD, forti dell’esperienza maturata in questi anni, il compito del controllo quotidiano e costante sugli atti amministrativi. Al partito, il compito di vegliare sugli indirizzi strategici e prefigurare il futuro più utile per la città e la provincia.
Sicuramente hanno concorso alla sconfitta anche fattori di carattere nazionale, attinenti sia alla situazione economica generale sia a quella del partito in sé. Non c'è dubbio - il riscontro nelle piazze l'ha confermato - che quattro anni di governo con una leadership estremamente contrastata, insieme all'esasperante litigiosità interna, all'eccessiva sicurezza delle nuove classi dirigenti ed alla sconfitta al referendum abbiano determinato una profonda lesione dell'immagine del Partito Democratico e della percezione della sua capacità di interpretare e concentrarsi sul reale disagio della popolazione italiana.
Una fetta dell’elettorato non si riconosce più nel partito e si astiene dal voto per diversi motivi: la crescita delle disuguaglianze; la stagnazione economica; la disoccupazione; il precariato; il crescente senso di insicurezza per il futuro oltre che per l’incolumità personale; alcuni insoddisfacenti esiti delle pur numerosissime riforme approvate. E tanti altri.
Ne aggiungo uno: lo sconcertante spettacolo che abbiamo offerto agli elettori, come partito di governo. Il mio parere personale è che quando si perde un congresso di partito ci si debba preparare con pazienza e metodo per vincere il successivo e cambiare una linea politica di cui non si è convinti. Nel frattempo però si lavora insieme per supportare la già complicatissima azione della maggioranza. Abbiamo invece assistito in questi ultimi quattro anni allo stillicidio continuo di dichiarazioni pubbliche di parlamentari in dissenso con l’azione del proprio governo. Magari mai confrontatisi con la conquista del consenso popolare, grazie ad una legge elettorale che ne ha garantito l’elezione nei listini bloccati. Ma perfettamente consapevoli di fare notizia e di acquisire alla lunga una visibilità e notorietà personale che avrebbe potuto diventare utile alle elezioni successive. Scene difficili da immaginare nei partiti di Berlinguer e Aldo Moro. Fino ad arrivare ad un'uscita dal partito che non risolve il problema, ed anzi pone nuove questioni.
A chi è utile il frazionismo della sinistra? Alle categorie che si dice di rappresentare o alle poche persone che si propongono di rappresentarle? E se anche queste ultime avessero legittimazione a rappresentarle, che risultati potrebbero mai ottenere per esse con percentuali di consenso di pura testimonianza?
La storia degli ultimi trent’anni dovrebbe averci insegnato che una sinistra identitaria e politicamente isolata, accontentandosi di fare pressione attraverso azioni rivendicative nei confronti di un potere gestito da altri, non solo non riesce ad incidere sulle politiche sociali e redistributive a beneficio delle classi che intende rappresentare, ma perde terreno e pone a rischio anche tutte le conquiste faticosamente raggiunte in anni di lotte sindacali, nell’epoca ormai lontana in cui l’area socialista rappresentava circa il 40% (e del 98% !!) dell’elettorato.
Il Partito Democratico è nato per dare ad un centro-sinistra erede di quell’area una nuova chance di governo, nella convinzione che solo attraverso la gestione del potere si possano attuare le riforme necessarie a raddrizzare il timone e riequilibrare la barca, ribilanciando i carichi di ognuno con equità e lungimiranza. Realizzando davvero un significativo cambiamento nella vita delle persone che fanno più fatica, e che oggi non riescono più a guardare l’orizzonte con animo colmo di fiducia e speranza. Sicuramente non sarebbero le stesse riforme che una sinistra dura e pura sbandiererebbe eternamente di voler fare, ma anche se frutto di qualche compromesso sarebbero qui ed ora, e sarebbero sempre meglio che continuare a perdere terreno.
Ogni partito politico conosce fortune e rovesci nel corso degli anni. E’ compito delle sue classi dirigenti saper mantenere la rotta, sia nei momenti di euforia e di vento in poppa che in quelli di bonaccia e tempesta. Il raggiungimento dell’approdo è sempre frutto di una guida sicura e di un tenace e corale lavoro di squadra.
Il Partito Democratico nasce da un disegno visionario e condivisibile: riunire le varie anime progressiste e riformatrici di questo Paese. Raccogliere l’importante eredità di grandi partiti popolari. Sintetizzare ideali e valori che hanno caratterizzato le lotte e le conquiste democratiche del Novecento e proiettarle nel nuovo secolo. Declinare nuove istanze popolari nel mondo interconnesso. Temperare le distorsioni del sistema capitalistico globalizzato, basato sulla produzione per il consumo e sullo sfruttamento delle risorse umane, ambientali e materiali. Studiare nel frattempo come superarlo, avendo come punto di riferimento il maggior grado di uguaglianza possibile delle condizioni di partenza, e l'eliminazione di ogni evidente e insopportabile disparità e privilegio che non abbia ragion d'essere in una comunità che si affidi a regole comuni di convivenza civile.
Il Partito Democratico può vivere solo se è riformista. L'unica cosa che deve conservare è il coraggio. Il coraggio di guardare le cose che non vanno e denunciarle pubblicamente, impegnandosi a correggerle. Il coraggio di alzarsi e dire "è stata colpa mia" e "potevo fare di più". Il coraggio di ammettere le proprie mancanze e sforzarsi di fare meglio, passando il testimone a nuove generazioni, a nuove idee, a nuovi slanci di ideali e passioni civili, spesso sopiti o cinicamente utilizzati in chi da tanti anni si trova al timone senza ancora aver portato il veliero in nessun porto.
Il Partito Democratico assorbe e riassume in sé i grandi ideali e valori che hanno ispirato la Storia dell'affrancamento dell'uomo dal giogo del servaggio e della sottomissione. Ha fra le labbra, e le ripete sottovoce, le parole che nella storia dei popoli hanno risvegliato e animato il coraggio della disperazione, e la lotta alle ingiustizie e ai soprusi. Da quelle della rivoluzione francese a quelle della dichiarazione d'indipendenza americana. Dalla dichiarazione dei diritti dell'uomo al Manifesto di Ventotene. Deve sempre chiedersi se il suo agire e i suoi attori siano all'altezza di quegli ideali e valori. Deve sempre saper riconoscere il tiranno da abbattere e domandarsi ogni giorno se non lo stia diventando esso stesso. Perché il tiranno esiste ancora. Anche nel nuovo secolo. Non si chiama più sovrano, duce, fuhrer, padrone. Ha nomi più complessi, è meno visibile, si alimenta sulla rete, non vive in uno stato solo, ma crea sudditi nel mondo. Ingigantisce le disuguaglianze. Soffoca le speranze e i sogni di riscatto. Fomenta le paure, accresce l’ansia per il futuro, alimenta la rabbia contro tutto e tutti, minando le fondamenta di ogni convivenza civile.
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Giorgio Alessandrini, 3 dicembre 2017