Nei prossimi due mesi assisteremo ad un acceso scontro mediatico sulla riforma istituzionale. Telegiornali, talkshow, caffè televisivi mattutini e pomeridiani aizzeranno le parti, alimentando la contesa per ragioni di audience e conseguenti introiti pubblicitari. Un confronto sempre più volgarizzato in tifo da stadio, perché è l'animosità delle passioni quella che è sostanziale allo show. Non altro.
Non importa nulla dove siano le ragioni o i torti. Entrare nel merito, televisivamente, significa solo dare l'imbeccata ai litiganti. Chi segue la politica arriverà al voto già schierato dietro le proprie convinzioni, quando non ai pregiudizi. Non si sposterà di un millimetro, sentendosi autorizzato a cambiare canale perché già convinto. Gli altri, che si rifugiano nell'astensione o nei voti contro sistema, faranno lo stesso, perché non hanno più fiducia nella politica, nei loro attori e nella loro capacità di occuparsi dei problemi concreti della gente comune.
Questo è l'aspetto che ha più rilevanza, sotto il profilo storico e sociologico: l'interruzione di un solido rapporto tra politica e popolo. Uno strappo avvenuto con il disfacimento della prima Repubblica e mai ricucito dalla seconda.
Alla fine degli anni 80, con il crollo del comunismo e la caduta del muro di Berlino, vennero al pettine i nodi irrisolti di un sistema politico bloccato dalla mancanza di una vera possibilità di alternanza tra le forze politiche. Essa sarebbe stata di aiuto alle stesse per rigenerarsi e imparare dai propri errori; avrebbe potuto garantire il rinnovamento di uomini ed idee, evitando di dare l'impressione di essersi organizzati in una casta protetta nella bambagia di privilegi irraggiungibili per i comuni mortali, e al di sopra delle stesse leggi.
Eppure la politica non è stata sempre così. Nel dopoguerra è stata riorganizzazione del tessuto sociale, partecipazione, crescita culturale e di consapevolezza delle masse popolari, miglioramento delle loro condizioni di vita ed economiche, uscita dall'isolamento.
Tramite i diversi partiti che rifiorivano dalle ceneri della guerra e del fascismo, interi ceti sociali sono usciti dalle campagne, dalla povertà, dalla malnutrizione, dalle malattie endemiche e dall'analfabetismo. Si sono fatte popolo. Hanno riconosciuto tra essi i loro leader: quelli che avevano studiato, quelli che parlavano meglio, quelli che durante i comizi sapevano toccare il loro cuore. Hanno lottato insieme per maggiori diritti e nuove conquiste, contrapposti a coloro che gliele volevano negare.
Con il boom economico si è consolidato un nuovo ceto medio fatto dalla piccola e media borghesia. Dalla dialettica del confronto tra le parti sociali è nata una società più democratica e civile che si è affiancata nel continente alle altre nazioni europee dal percorso simile, ed insieme ad esse si è contrapposta a quelle del blocco sovietico che seguivano percorsi diversi, traendo dal confronto motivi di ulteriore crescita.
Era quello un tempo in cui la politica era in grado di condizionare l'economia, e pur mantenendosi nel solco di una struttura economica capitalistica e di libero mercato, aveva la lungimiranza e la forza di correggerne le distorsioni ed operare affinché la ricchezza non si concentrasse solo nelle mani di pochi. In questo certamente aiutata dalla presenza di un sistema economico alternativo che, sebbene inefficace e fallimentare, costituiva con la sua stessa presenza un argine opportuno al capitalismo industriale, per non parlare di quello finanziario.
Con la definitiva affermazione dell'economia di libero mercato e senza la contrapposizione con strutture economiche alternative, il capitalismo si è trasformato da industriale in finanziario e globale, concentrando un'enorme potenza nelle mani di pochissimi.
Le vecchie contrapposizioni tra operai e datori di lavoro si sono stemperate, ed ora entrambi i soggetti si trovano dalla stessa parte e in concorrenza con analoghi soggetti in altre parti del mondo, pronti a produrre a minor costo i beni di consumo offerti sul mercato. Una nuova forma di internazionalizzazione dello sfruttamento in cui tanti, in competizione tra loro per sopravvivere, scendono i gradini della scala sociale solo per alimentare l'abnorme ricchezza privata di pochi. La scomparsa delle classi sociali che hanno caratterizzato le lotte del novecento non comporta però la scomparsa del bisogno di lavoro.
Il ceto medio, che si è espanso nella seconda metà del secolo dando linfa alla democrazia del confronto, nel mondo globalizzato si va impoverendo. Le sue opportunità, le sue possibilità, le sue speranze e le sue conquiste sociali si vanno sempre più assottigliando. Le crescenti preoccupazioni per una società il cui tessuto economico e sociale si sta sgretolando richiedono forze politiche che raccolgano le nuove sfide e se ne facciano carico.
In loro assenza, o nella inadeguatezza delle risposte, cresce nei ceti più sofferenti la disaffezione verso la politica. Non solo non se ne sentono più rappresentati, ma finiscono per considerare le diverse parti in gioco come un unico establishment estraneo alla gente.
Consapevoli che questo modo di fare politica non servirà ad influenzare le scelte delle potenze finanziarie che operano nel mondo globalizzato, questi ceti guardano i rappresentanti politici e le istituzioni nazionali ed europee come insiemi di individui lontani dai loro problemi, solamente dediti a perpetuare il più a lungo possibile la loro posizione privilegiata, sebbene subalterna alla finanza.
Un popolo che perde la speranza si nutre di rabbia, credendola ragione. Anziché comprendere che solo la politica li salverà, le masse che vengono ricacciate indietro nelle loro conquiste e si sentono sempre più sospinte verso i nuovi miserabili che affluiscono dall'Africa, o si astengono dal voto o riversano il loro rancore a sostegno di movimenti di protesta verso il sistema, senza capire che questi movimenti, non offrendo soluzioni, diventeranno presto sistema essi stessi.
Nessuno, privo di ingenti rendite finanziarie, potrà salvarsi da solo illudendosi di potersi isolare. La salvezza non potrà essere che collettiva.
È per questo che la politica diventa necessaria e indispensabile. Quella vera, si intende. La politica che è partecipazione, discussione, analisi dell'esistente, delle sue positività e delle correzioni da effettuare; confronto di idee, individuazione di nuovi orizzonti e nuovi ideali; fiducia, entusiasmo e scelta delle nuove persone per perseguirli.
Il Partito Democratico è nato per questo. Non si può perdere negli scontri interni, ne può rimanere ancorato a schemi del passato. Per la sua natura di partito riformista, deve porre ogni sforzo nel rielaborare un pensiero nuovo, che dia un significato alla politica come nuovo modo di stare insieme e di far valere l'interesse generale, tornando a far risentire gli uomini liberi e padroni del proprio destino.
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Giorgio Alessandrini, 8 ottobre 2016