Nel 1987 Margaret Thatcher affermò che «non esiste la società. Esistono gli individui, uomini e donne, e le famiglie». Una delle più grandi farneticazioni del ventesimo secolo. Che rispecchiava però la tendenza da parte del capitale, negli anni 80, al recupero delle posizioni perdute negli anni 60-70 con le concessioni all’economia sociale.
Friedrich von Hayek, tra i padri del neoliberismo, nella sua critica della società sosteneva l’inopportunità che lo Stato operasse in modo coercitivo sui suoi attori, anche se fosse per ragioni di ‘giustizia sociale’. Negava pertanto l’esistenza di un dovere morale di sottomettersi a un potere che coordinasse gli sforzi dei membri di una società con obiettivi redistributivi. Ai suoi occhi un tale potere era da considerarsi totalitario e limitativo delle libertà individuali. L’unico ordine accettabile, per Hayek, consisteva nell’equilibrio generato dal mercato.
Quale sia questo modello di equilibrio, se non siamo riusciti a prevederlo allora, ora – dopo quarant’anni - ce lo abbiamo sotto gli occhi.
Se il controllo sui processi economici viene definito come “male assoluto” e negazione della libertà;
se contrastiamo qualsiasi ipotesi di correzione delle distorsioni distributive dimenticando l’evidenza che in una società complessa la libertà assoluta è impossibile;
se non diventiamo consapevoli che il mercato, da solo, non produce affatto il benessere per tutti ma solo per pochissimi, ed anzi aumenta il caos e la precarizzazione della vita delle masse,
non facciamo altro che alimentare il risentimento degli esclusi e aprire la strada al fascismo come totale negazione di ogni libertà (Karl Polanyi, La grande trasformazione, 1944).
Ora, dopo le crisi del 2007-2008 e quella pandemica del 2020, ci accorgiamo degli effetti perversi delle teorie neoliberiste e ci chiediamo in nome di quali libertà - e delle libertà di chi – stiamo sacrificando le nostre vite e quelle dei nostri figli.
Mentre i processi distributivi continuano a riempire le tasche di chi ha già tutto, e
riformette fiscali moltiplicano il numero di privilegiati ed esentati,
le classi medie e popolari vivono sotto il macigno di un debito che potrebbe franare e impoverirle all’istante, come è successo in Grecia, lasciando inalterate le ricchezze di chi ha già provveduto a sistemare i suoi beni all’estero.
Il paradosso dell’ideologia neoliberista è che tutta la retorica volta a scardinare e rimuovere l’intervento dello Stato nell’economia, denigrato come intrusivo e inefficiente, è in realtà basata sull’analisi di una società di cui si pretende di negare l’esistenza. Perché il vero fine non è quello di far ritrarre lo Stato in quanto tale, ma solo lo Stato sociale. Al neoliberismo sfrenato, infatti, lo Stato, il suo monopolio della forza e della coercizione serve, eccome! Prima di tutto come mercato, ma poi anche per garantire tranquillità e sicurezza, garanzia di continuità e buon perseguimento degli interessi delle élite performanti, liberandole dai “lacci e lacciuoli” posti dallo Stato a protezione dei più deboli.
Dopo aver pervaso le società occidentali per decenni,
il neoliberismo e il capitalismo finanziario globalizzato mostrano in tutta la loro ampiezza
gli enormi disastri prodotti: una
concentrazione delle ricchezze che prende la forma di un vero e proprio
neo-feudalesimo, la
precarizzazione delle vite dei ceti popolari e medi delle economie occidentali, la
vanificazione delle conquiste sociali e redistributive del Novecento, la
crisi climatica e dell’approvvigionamento energetico. Disastri che portano la nave del liberismo ad arenarsi nelle secche dell’immobilismo e della mancata crescita, e richiamano gli Stati e la politica a ritrovare il loro ruolo e la legittimità per rispondere ai bisogni delle moltitudini.
Se questo interregno non è ancora sfociato in conflitto, lo farà. A meno che una politica alternativa al neoliberismo non sappia far germogliare i semi che involontariamente spargono le politiche di destra, classica o populista che sia. Semi che si chiamano ‘classe’, ‘solidarietà’, ‘giustizia sociale’, ‘equità’, ‘ambiente’, ‘socialdemocrazia’. Parole antiche che oggi riacquistano valore. Che richiedono un nuovo ordine che non si limiti alle sole correzioni economiche, ma ridisegni un nuovo patto sociale, togliendo ossigeno alla guerra strisciante di tutti contro tutti.
“L’abdicazione della politica democratica al compito di difesa dell’interesse generale, mediante l’applicazione dei principi di uguaglianza e solidarietà, ha comportato, insieme al crollo della sfera pubblica e alla rottura della coesione sociale, anche l’aumento delle disuguaglianze in tutti gli ambiti”.
Un nuovo patto sociale che risani le profonde fratture create dal neoliberismo, e che minano le fondamenta delle democrazie occidentali e la credibilità della politica come strumento di ricerca del bene di tutti:
1. La separazione delle élite dal corpo sociale e dalle vite comuni di miliardi di individui. Negli ultimi quarant’anni i ricchi hanno operato una vera e propria secessione dai ceti medi e popolari, separando le loro vite e destini da quelli delle moltitudini, garantendosi un eldorado di accessi privilegiati a benessere, lusso, salute, cultura, politica ed economia, che all’uomo comune sono preclusi.
2. La frattura tra centro e periferie, in cui queste rimangono escluse dai flussi vitali che riguardano i processi di sviluppo, la crescita culturale e cosmopolita, ripiegando in sé stesse e rifugiandosi nella difesa della propria identità per fronteggiare quelle che vengono percepite come minacce esterne senza nessun beneficio contrapponibile.
3. L’isolamento dell’individuo dalla collettività circostante a cui appartiene, dagli altri. E, di conseguenza, la perdita del senso di un destino comune, della possibilità di fare gruppo, di incidere con peso determinante nella società a cui si appartiene. Se vivo in un mondo in cui l’ideologia dominante è la capacità di successo individuale, e l’unico metro di misura delle persone è costituito dal denaro di cui dispongono, allora la mia è una battaglia solitaria e quotidiana contro tutti nello sforzo, disperato e frustrante, di modificare la mia condizione e affrancarmi per sempre dalle insidie e pericoli della precarietà della vita. E per far questo sono disposto a tutto. Anche a rinunciare alla mia unica possibilità di successo: ricollegarmi alle vite dei tantissimi come me, e far valere la soverchiante potenza dei numeri di coloro che non ce la fanno più.
4. La solitudine impotente dell’uomo interconnesso, in assenza di una risposta politica, alimenta la necessità di appartenenza a gruppi organizzati, favorendo il tribalismo di origine religiosa e/o razziale, sfruttato a piene mani dal populismo per lucrare consenso elettorale.
“In questi quattro decenni il progetto di un’armonia possibile tra le libertà dei singoli e la coesione generale è stato rimpiazzato dal primato del sé, dell’interesse individuale sopra e contro l’idea stessa del bene collettivo”.
La visione neoliberista di individui indipendenti ed isolati, chiamati a competere per il proprio utile ha disgregato la società fondata su diritti fondamentali, delegittimando welfare e pubblico come arena di ricomposizione dei conflitti collettivi.
“L’abbandono dell’idea di società ha coinciso con il declino della sinistra, perché ha comportato la piegatura individualista e la frammentazione identitaria anche delle lotte progressiste, e la crisi di ogni visione politica capace di saldare le rivendicazioni di uguaglianza al riconoscimento delle differenze, i diritti sociali ai diritti civili, l’idea di giustizia a quella di libertà”. Per cambiare strada non basta contrapporre nuovi e diversi individualismi, magari basati su piccole identità tribali confuse per diritti delle minoranze. Occorre una nuova visione egemonica capace di ridare un significato a parole universali, quali collettività, uguaglianza, solidarietà.
Occorre far valere rapporti di forza non solo economici, ma anche numerici. Per fare questo, l’individualismo e il gruppuscolismo devono essere soppiantati da un nuovo Noi di carattere universalistico. Un Noi sovrastante, in cui gli interessi singoli e particolari riconfluiscano, nel nome di una vita migliore e più serena per tutti, per rivendicare una svolta della politica e il ritorno a modelli di società in cui tutti si sentano inclusi, nel rispetto reciproco delle differenze di ognuno. Perché
universalistico? Perché è l’unica cosa che teme chi manovra le leve
dell’economia e della finanza. Il radunarsi delle forze su temi e diritti
universali, che valgono per tutti, favorirebbe la creazione di un’opposizione
di massa in grado di ribaltare i rapporti di forza. Invece, la
frammentazione nel movimentismo identitario (diviso per razza, etnia,
sessualità, religione, disabilità, ecc.) è funzionale al potere ed alle élite
dominanti. Alimentandolo e incoraggiandolo attraverso il populismo di
destra, esse disperdono le forze avverse in mille piccoli rivoli che
inaridiscono senza mai affluire, e impediscono così la formazione di un grande
fiume che possa tracimare e travolgerli.
Fintanto
che ogni gruppo identitario alzerà la voce per difendere solo i propri diritti, magari a discapito di quelli degli
altri, e per far questo ogni rappresentanza sociale e/o politica si specializzerà
per tema o argomento, nessuno perderà il tempo a riflettere sul fatto che
tutti insieme potrebbero ottenerli tutti.
________________________________________ Giorgio Alessandrini - Piacenza, 2 febbraio 2024 Riferimenti:
Rapporto Oxfam 2023, La disuguaglianza non conosce crisi
Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo
Karl Polanyi, La grande trasformazione
Christophe Guilluy, La società non esiste
Giorgia Serughetti, La società esiste
Alfredo Reichlin, La mia Italia