La tentazione sarebbe di accomodarsi sul divano col telecomando o un libro in mano. Ma, un po’ per la pessima qualità delle trasmissioni e un po’ per la considerazione che, in fondo, se qualcosa di buono potrà venire da questa clausura forzata, forse sarà da nuove idee per sconfiggere la minaccia e progredire, provo a fare qualche riflessione.
Gli ultimi dodici anni per noi italiani sono stati duri. Abbiamo perduto certezze e fiducia. Viviamo in un perenne stato d’ansia e precarietà . Le disparità economiche si sono accentuate e il modello economico occidentale è in discussione per l’evidente inadeguatezza a rispondere alle necessità delle moltitudini, finendo per garantire solo una ristretta parte delle élite economiche mondiali. La conseguenza è l’indebolimento delle istituzioni politiche e sociali, e il sorgere di movimenti populisti che cavalcano la rabbia e il malcontento per tornaconto personale.
L’attuale blocco delle attività economiche appesantisce ulteriormente gli animi, già affranti dalla segregazione e dalla catena del contagio e dei lutti. Aleggia lo spettro di una nuova immane recessione che rievoca il disastro e la povertà conseguenti alla crisi del 1929.
Ciò nonostante, non dobbiamo perderci d’animo. Nelle situazioni estreme, si possono affrontare nodi irrisolti e prendere decisioni trascinatesi senza costrutto per decenni. Si creano le condizioni per sbrogliare la matassa dei veti incrociati e delle resistenze di parte, impossibili da dipanare in situazioni di normalità , ma superabili in nome di un interesse supremo.
I settori in cui agire sono molti, e tutti accomunati dalla necessità di essere coordinati da una visione e una strategia comune; da un’unità di intenti che, in democrazia, non può che essere supportata dalla consapevolezza e dalla approvazione popolare. C’è quindi bisogno di buone idee, da qualsiasi parte provengano; e poi di coordinazione, sintesi, comunicazione e consenso.
Finalmente in Europa sembra essersi affermata la necessità di un’intensa politica di investimenti per superare la crisi. Anche nei paesi più riluttanti ad abbandonare la vecchia impostazione del rigorismo, inizia a far breccia la consapevolezza che il senso di un’Europa comune e solidale non risieda soltanto nelle politiche di bilancio, bensì nella capacità di coinvolgere i popoli verso un traguardo collettivo ed epocale.
Oggi è la storia che ci chiama, come nel 1989. Sono quindi da giudicarsi positivamente gli inviti a riconsiderare le proprie posizioni, rivolti dai paesi “mediterranei†a quelli “nordiciâ€.
Non dobbiamo però illuderci che l’auspicabile riavvicinamento di questi sia gratuito. Una volta accettato il principio di un forte stimolo europeo alle politiche di investimento, i paesi più fragili come il nostro dovranno presumibilmente predisporre piani di risanamento economico e strutturale, non tanto a garanzia dell’investimento europeo, ma soprattutto a garanzia di sé stessi e delle loro popolazioni, affinché lo sforzo non vada disperso nei mille rivoli della rendita e del sussidio, invece di potenziare l’offerta di lavoro e con essa la domanda di beni e la ripresa produttiva generale. Quella ripresa necessaria per riacquisire il controllo del debito pubblico, e addomesticarlo a favore di una nuova disponibilità di risorse per investimenti e abbassamento della pressione fiscale.
Sia che ci “invitino†o meno, avremo comunque da fare qualche compito a casa. Forse potremo rilanciare e chiedere, a fronte dei nostri sforzi, un’armonizzazione delle politiche fiscali dei paesi dell’Unione, per eliminare paradisi fiscali che oggi ci sottraggono risorse essenziali. Ma, alla fine, il momento per affrontare due argomenti non più rinviabili – debito pubblico ed evasione fiscale – è questo. È il migliore, è irripetibile, e non ce ne saranno altri per decenni.
È impensabile immaginare di destinare e utilizzare fondi ingentissimi con l’unico scopo di creare sussidi e sostegno al tessuto economico esistente. Significherebbe perpetuare la nostra condizione di inferiorità , disperdendo risorse che invece dovrebbero essere orientate al recupero delle nostre posizioni arretrate. Come muoversi, allora? In due direzioni: risanamento e investimenti strutturali.
Per quanto riguarda il risanamento, premessa fondamentale è una riforma fiscale complessiva che sposti il peso sulle imposte indirette rispetto alle dirette, e sulla rendita rispetto al lavoro. Una riforma che, attraverso una maggiore diversificazione delle aliquote e un ampiamento degli oneri detraibili, attivi l’interesse del contribuente a certificare ogni acquisto di beni e servizi pagato elettronicamente per detrarlo dal reddito, al fine di raggiungere un imponibile con aliquota inferiore. Se col gioco degli sconti e detrazioni si recuperasse anche solo il 70% del totale evaso, sarebbero comunque 77 miliardi di euro utili a ridurre il debito pubblico e a un’adeguata politica di investimenti. E si farebbe una gigantesca operazione di redistribuzione dei redditi e di equità fiscale, oltre che di forte sostegno alla domanda interna.
La risoluzione del problema dell’evasione e dell’elusione sono indispensabili per poter affrontare il passo successivo: quello di una significativa riduzione dell’ammontare del debito pubblico, tale da riportarlo a livelli accettabili e confrontabili con quello degli altri paesi europei, liberandoci una volta per tutte da questa eterna palla al piede che non ci rende competitivi sui mercati finanziari internazionali e che sottrae risorse ingenti a lavoro e investimenti per dirottarli verso la rendita e la speculazione. E, soprattutto, che sarebbe giusto che restasse a carico della generazione che l’ha prodotto, invece che sulle generazioni successive.
Gli investimenti, invece, dovranno essere strutturali ed in grado di modificare e favorire il contesto in cui opera la parte produttiva del paese. Quindi le reti: digitali, viarie, ferroviarie. Dobbiamo aprire “cantieri†infrastrutturali per poter andare e arrivare ovunque.
Reti digitali: bisogna moltiplicare le connessioni, la banda larga, le reti ultraveloci, il 5G. Dobbiamo riavvicinare ed inglobare la montagna e le zone sottosviluppate al cuore del sistema produttivo, interrompendo il processo di degrado territoriale e lo spopolamento che depaupera le aree storiche e tradizionali delle nostre valli. Dobbiamo sfruttare l’hi-tech per centralizzare le idee, non le persone.
Reti viarie: i recenti disastri hanno evidenziato l’urgenza del riammodernamento delle nostre principali reti stradali e autostradali. Gli investimenti necessari non sono facilmente sostenibili dai privati, ma il contributo che lo Stato può destinare alle opere in questa occasione può essere fondamentale e recuperabile dai proventi, previo accordo con il concessionario.
Reti ferroviarie: è arrivato il momento, anche alla luce dei problemi ambientali sempre più pressanti, di riconsiderare scelte del passato del tutto sbilanciate a favore del trasporto su gomma, e accelerare il processo di spostamento delle merci su rotaia, creando le infrastrutture necessarie allo smistamento veloce dagli hub principali, porti e zone industriali.
E poi l’ambiente: una spinta propulsiva verso le fonti energetiche alternative e pulite, in grado di riequilibrare la pressoché totale dipendenza dai combustibili tradizionali, attraverso investimenti nella ricerca e progettazione e, parallelamente, politiche di incentivazione individuale all’ammodernamento dei sistemi di approvvigionamento. In questi ‘anni venti’ del nuovo secolo dobbiamo affrontare il problema della qualità della vita nei centri urbani, riprogettando la mobilità e le forme delle periferie, incentivando lo sviluppo verticale e il recupero di suolo, le ristrutturazioni e ricostruzioni che favoriscano l’ambiente, la socialità , gli anziani soli, gli spazi comuni, le aree di svago e di interesse, l’operosità di quartiere, la vita di comunità , anche attraverso la netta separazione dei movimenti su vettura dalle vie ciclabili e pedonali.
Seppure nel dramma di una pandemia che ci riporta ad epoche remote, si presenta l’incredibile occasione di trasformare la tragedia in una nuova ricostruzione. Non possiamo permetterci di sprecare l’opportunità di ricreare per le generazioni future quelle prospettive che oggi gli abbiamo bruciato.
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Giorgio Alessandrini, 4 aprile 2020